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      L'ingegnere, vedendo quel coso, esclamò ancora: "Cosa mai, cosa mai?". Ma l'ometto, cerimonioso nell'anima, tenne duro: "Il mio dovere, il mio dovere", e chiamò la Marianna che facesse lume. Costei, quando vide il padrone con quello spettacoloso segno di compiacenza in capo, incominciò a far le meraviglie. "La tasa!", sbuffò il disgraziato signor Giacomo. "Tasì!", e appena fuori dell'uscio si sfogò. "No ghe xe ponto de dubio; quela maledetissima servente sarà la me morte."
      E perché non la manda via?
      , chiese l'ingegnere.
      Il signor Giacomo aveva posto un piede sul primo scalino della viottola che sale a fianco della casa Puttini, quando quest'acuta interrogazione, penetrandogli come un pugnale nella coscienza, lo fermò di botto.
      Eh!
      , rispose sospirando.
      Ah!
      , fece l'ingegnere.
      Cossa vorla?
      , riprese l'altro dopo una breve pausa. "Questo xe quelo."
      Pronunciata in via di epilogo, secondo un vecchio uso veneto, tale disgraziata identità dei due aggettivi indicativi, il signor Giacomo fece le guance grosse, soffiò con vivacità e si decise a rimettersi in via.
      Salirono per alcuni minuti, egli davanti e l'ingegnere dietro, per la stradicciuola faticosa, mal rischiarata da un chiaror di luna perduta fra le nuvole. Non si udivano che i passi lenti, il picchiar delle mazze sul ciottolato e i soffi regolari del signor Giacomo: apff! apff! A piedi della lunga scalinata di Pianca, l'ometto si fermò, si levò il cappello, si asciugò il sudore con un fazzolettone bianco e guardando su al gran noce, alle stalle di Pianca, cui bisognava salire, mise un soffio straordinario.


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Piccolo mondo antico
di Antonio Fogazzaro
pagine 421

   





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