A levante della casina si stendeva un orto favolosamente spazioso per quei paesi le cui pianure l'ingegnere Ribera soleva definire con questa citazione censuaria: campo grande, detto il campone, tavol sett. Sette tavole son venti o ventidue metri quadrati. Il professore lo coltivava con l'aiuto del suo servitorello Giuseppe, detto il Pinella, e d'una bibliotechina di trattati francesi. Si faceva venire di Francia i semi delle qualità d'ortaggi più celebrate, che talvolta gli spuntavano ignobilmente diversi dalla loro fede di battesimo e magari da qualunque onesta famiglia battezzata. Accadeva allora che filosofo e famiglio, curvi sull'aiuola con le mani alle ginocchia, levassero gli occhi dai germogli beffardi per guardarsi in faccia, il primo sinceramente, il secondo ipocritamente compunto. In un canto dell'orto viveva, nella sua stalletta costrutta con tutte le regole dell'arte, una vaccherella svizzera comperata dopo tre mesi di assidui studi e riuscita magra e cagionevole quanto il padrone; al quale, malgrado la mucca svizzera e quattro galline padovane, capitava spesso di non potersi preparare in casa un latte all'ovo. Nel muro di sostegno verso il lago, battuto al piede dall'onda piena della breva, egli aveva praticati dei fori e piantato, per consiglio di Franco Maironi, alquante agavi americane, alquanti rosai e capperi, fasciando così, come soleva dire, con una elegante forma poetica il sostanzioso contenuto dell'orto. E per amore di poesia aveva lasciato incolto un breve angolo dell'orto stesso.
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