Vi era cresciuto un canneto altissimo e a questo canneto il professore aveva addossato una specie di belvedere, un alto palco di legno, molto rustico e primitivo, dove nella buona stagione passava qualche gradevole ora leggendo, al fresco della breva, al mormorio del canneto e delle onde, i libri mistici che amava. Da lontano il colore del palco si confondeva con quello del canneto ed il professore pareva seduto in aria col suo libro in mano, come un mago. Teneva nel salotto la bibliotechina d'orticoltura; i libri mistici, i trattati di negromanzia, di gnosticismo, gli scritti sulle allucinazioni e sui sogni li teneva in uno studiolo vicino alla camera da letto, in una specie di cabina di nave dove il lago o il cielo parevano entrare dalla finestra.
Dopo la morte del vecchio Maironi il professore aveva ripigliato a visitare la famiglia, ma la marchesa Orsola gli piaceva poco e don Alessandro suo figlio, padre di Franco, meno ancora. Finì con andarci una volta l'anno. Quando il giovinetto entrò in liceo, il Gilardoni fu pregato dalla nonna, ché il padre era morto da un pezzo, di dargli qualche lezione durante l'autunno. Maestro e scolaro si somigliavano nei facili entusiasmi, nelle collere veementi e fugaci, ed erano caldi patrioti ambedue. Cessato il bisogno delle lezioni si rividero come amici benché il professore avesse oltre a vent'anni più di Franco. Questi ammirava l'ingegno del suo allievo; Franco invece stimava assai poco la filosofia mezzo cristiana mezzo razionalista del maestro, le sue tendenze mistiche; rideva della sua passione per i libri e per le teorie d'orticoltura e giardinaggio, scompagnata da qualsiasi senso pratico.
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