Lo aveva tuttavia molto caro per la sua bontà, per il suo candore, per il suo calor d'animo. N'era stato il confidente al tempo dell'infelice amore concepito dal Gilardoni per la signora Teresa Rigey e lo aveva poi ricambiato con le confidenze proprie. Il Gilardoni ne fu molto commosso; disse a Franco che avendo nel cuore quel tale culto gli sarebbe parso di diventar un poco suo padre anche se la signora Teresa non volesse saperne di lui. Franco non mostrò di apprezzare questa paternità metafisica; l'amore per la signora Rigey gli pareva un'aberrazione; ma insomma si confermò nell'idea che la testa del professore non valeva gran cosa e che il cuore era d'oro.
Bussò, dunque, all'uscio e venne ad aprirgli il professore in persona portando un lumicino a olio. "Bravo", diss'egli. "Credevo che non venissi più."
Il Gilardoni era in veste da camera e pantofole, aveva in testa una specie di turbante ed esalava un forte odore di canfora. Pareva un turco, un Gilardoni bey; ma la faccia magra e giallognola che sorrideva sotto il turbante nulla aveva di turchesco. Contornata d'una barbetta rossastra, fiorita pomposamente, nel mezzo, d'un bel nasone bitorzoluto e vermiglio, luceva per due begli occhi azzurri, molto giovanili, pieni d'ingenua bontà e poesia.
Appena Franco ebbe chiuso l'uscio dietro di sé, l'amico gli sussurrò: "È fatto?". "È fatto", rispose Franco. L'altro lo abbracciò e lo baciò silenziosamente. Poi lo fece salire nello studiolo. Gli spiegò strada facendo che s'era applicato sulla testa delle compresse d'acqua sedativa, secundum Raspail, per una minaccia di emicrania.
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