Stasera Lei mi dice che la nonna minaccia; si figuri! Adesso capisce che non ho potuto aspettare, che non ho potuto tenere un momento ancora queste carte; ecco, a Lei, le prenda!"
Franco, assorto nei propri pensieri, non udì che queste ultime parole. "No", diss'egli, "non le prendo. Mi conosco. Se le ho in mano posso fare troppo presto qualche cosa di troppo grave. Le tenga Lei, per ora." Il Gilardoni non voleva saperne di tenerle, e Franco ebbe uno de' suoi scatti di impazienza. Niente gl'irritava i nervi, del resto, come gli sfoghi sconclusionati della gente di buon cuore e di cattiva testa. Si riscaldò perché il Gilardoni resisteva, gli fece intendere che quel volersi sbarazzare a ogni costo delle carte era egoismo bell'e buono e che quando si fanno degli spropositi bisogna subirne le conseguenze. Le parole furono presso a poco queste; la faccia irritata e dura diceva molto peggio. Il Gilardoni, rosso rosso, fremeva tutto per quell'accusa di egoismo, ma si contenne; e fatto anche lui un fiero cipiglio, ripetendo "bene bene bene bene", intascò frettolosamente le carte e uscì senz'altro. Subito Franco, per soddisfazione della propria coscienza, si mise a persuader se stesso che il signor Beniamino aveva tutti i torti possibili; torto di non avergli consegnato le carte molto prima, torto di essersi fatto pregare adesso per tenerle ancora, torto di essersi offeso. Sicuro di far la pace con lo sconclusionato filosofo, non pensò più a lui, spense il lume e, ritornato alla sua poltrona, ripiombò nelle riflessioni di prima.
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