Dai quattordici anni in poi s'era venuta inclinando a non guardare oltre la vita presente, e insieme a non guardare a sé, a vivere per gli altri, per il bene terreno degli altri, però secondo un forte e fiero senso di giustizia. Andava in chiesa, compiva gli atti esterni del culto, senza incredulità e senza persuadersi che facessero piacere a Dio. Aveva confusamente il concetto di un Dio talmente alto e grande che non vi potesse essere contatto immediato fra gli uomini e Lui. Se dubitava qualche volta d'ingannarsi, il suo errore le pareva tale da non poterlo un Dio infinitamente buono punire. Come fosse venuta a pensare così, non lo sapeva ella stessa.
L'uscio si aperse ancora, pian piano, una voce sommessa chiamò "il signor don Franco". Luisa, rimasta sola, cessò di pregare, piegò il capo sul guanciale della mamma, le posò le labbra sulla spalla, chiuse gli occhi raccogliendo in sé la corrente di memorie che veniva da quel tocco, da un odor noto di lavanda. L'abito della mamma era di seta, il suo migliore, un dono dello zio Piero. Ella lo aveva portato una volta sola, qualche anno addietro, andando a visitare la marchesa Maironi. Anche questo pensiero venne coll'odor di lavanda, vennero lagrime brucianti, acri di tenerezza e di un sentimento che non era propriamente odio, che non era propriamente collera, ma che aveva un amaro dell'uno e dell'altra.
Franco, quando s'intese chiamare, trasalì, ne indovinò subito la cagione. Lo zio Piero aveva scritto, la mattina per tempo, alla marchesa, annunciandole, in termini semplici ma pieni di ossequio, la morte di sua sorella; e Franco stesso aveva aggiunto alla lettera dello zio un biglietto con queste parole:
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