Mio nipote. Figlio d'una mia sorella maritata a Bergamo con un I. R. portiere della Delegassione. Ha l'onore di chiamarsi Francesco Giuseppe, per desiderio mio; ma capisce bene, per il dovuto rispetto, questo non può essere il nome solito.
Soa mader la ghe dis Ratì e so pader el ghe dis Ratù ch'el se figura!
, interloquì la zia.
Citto, Lei!
, fece lo zio, severo. "Io lo chiamo Francesco. Un ragasso bene educato, devo dirlo, molto bene educato. Di' un po' su, Francesco, quando sarai grande, cosa farai?"
Ratì rispose a precipizio come se recitasse la Dottrina Cristiana:
Io quando sarò grande mi comporterò sempre da suddito fedele e devoto di Sua Maestà il nostro Imperatore nonché da buon cristiano; e spero coll'aiuto del Signore diventare un giorno I. R. Ricevitore di Dogana come mio zio, per andar quindi a ricevere il premio delle mie buone opere in paradiso
.
Bravo bravo bravo
, fece lo Zérboli, accarezzando Ratì. "Seguitiamo a farci onore."
Ch'el tasa, sür Commissari
, saltò fuori da capo la Peppina, "che stamattina el baloss el m'ha mangiaa foeura mèss el süccher de la süccherera!"
Comè comè comè?
, fece il Carlascia uscendo di tono per la sorpresa. Si rimise subito e sentenziò: "Colpa tua! Si mettono le cose a posto! Vero, Francesco?"
Pròpe
, rispose Ratì, e il Commissario, seccato da quel battibecco, da quella ridicola riuscita della sua frase paterna, prese bruscamente congedo.
Appena partito lui, il Carlascia menò un "toeu sü el süccher, ti", e un formidabile scapaccione a Francesco Giuseppe che si aspettava tutt'altro e corse a salvarsi tra i fagiuoli.
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