Di quella terrazzina Franco fece la poesia lirica della casa. Era piccina assai e parve a Luisa che vi si potesse concedere un po' di sfogo all'estro di suo marito. Fu allora che cadde dal trono il re dei gelsi valsoldesi, il famoso antico gelso del sagrato, un tiranno che toglieva alla terrazza tutta la vista migliore. Franco si liberò da lui mediante pecunia, disegnò e alzò sopra la terrazza un aereo contesto di sottili aste e bastoncini di ferro che figuravan tre archi sormontati da una cupolina, vi mandò su due passiflore eleganti che vi aprivan qua e là i loro grandi occhi celesti e ricadevano da ogni parte in festoni e vilucchi. Un tavoluccio rotondo e alcune sedie di ferro servivano per il caffè e per la contemplazione. Quanto al giardinetto pensile, Luisa avrebbe potuto sopportare anche il granturco per una tolleranza di spirito superiore che ama lasciar in pace gl'inferiori nelle loro idee, nelle loro abitudini, nei loro affetti. Ella sentiva una certa rispettosa pietà per gl'ideali orticoli del povero custode, per quell'insalata di rozzezze e di gentilezze ch'egli aveva nel cuore, un gran cuore capace di accogliere insieme reseda e zucche, begliuomini e carote. Invece Franco, generoso e religioso com'era, non avrebbe tollerato nel suo giardino una zucca né una carota per amore di qualsiasi prossimo. Ogni stupida volgarità lo irritava. Quando l'infelice ortolano si sentì predicare dal signor don Franco che il giardinetto era una porcheria, che bisognava cavar tutto, buttar via tutto, rimase sbalordito, avvilito da far pietà; ma poi lavorando agli ordini suoi per riformare le aiuole, per contornarle di tufi, per piantare arbusti e fiori, vedendo come il padrone stesso sapesse lavorar di sua mano e quanti terribili nomi latini e qual portentoso talento avesse in testa per immaginare disposizioni nuove e belle, concepì poco a poco per lui un'ammirazione quasi paurosa e quindi anche, malgrado i molti rabbuffi, una affezione devota.
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