Un notaio padovano copiava nello studio di Boggio. Un avvocato di Caprino Bergamasco, soldato di Roma del 1849, teneva i registri di un grande negozio di ombrelli e di mazze in via Nuova, per cui gli amici lo chiamavano il "Fante di bastoni". Un quarto, milanese, aveva fatto la campagna del '48 nelle guide di Carlo Alberto; per questo, e per una certa sua boria meneghína, il Padovano gli aveva posto nome "Caval di spade". La professione del Caval di spade era quella di litigare continuamente col Fante di bastoni per antagonismo di provincia, d'insegnare la scherma in due convitti, e, l'inverno, di suonare il piano dietro una cortina misteriosa, nelle sale dove si ballavano polke a due soldi l'una. Gli altri vivevano con miserabili assegni delle loro famiglie. Erano tutti scapoli, meno Franco, e tutti allegri. Si chiamavano e si facevano chiamare "i sette sapienti". Dominavano Torino, nella loro sapienza, dall'alto di sette soffitte sparse per tutta la città da Borgo San Dalmazzo a Piazza Milano.
La più misera era quella di Franco che la pagava sette lire il mese. Meno il Padovano, a cui una sorella del portinaio di casa portava l'acqua nella soffitta, nessuno della compagnia si faceva del tutto servire, e il Padovano avrebbe espiato bene la sua devota Margà con le tormentose celie degli amici, se non fosse stato il pacifico filosofo ch'era. Tutti si lustravano le scarpe da sé. Il più destro di mano era Franco e a lui toccava di attaccare i bottoni agli amici quando non volevano umiliarsi ricorrendo al Padovano e alla sua Margà, la quale, del resto, certe volte, "o mi povra dona!
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