Per Franco il passar davanti ai manifesti del Regio e degli altri teatri di musica, era un supplizio molto maggiore che lustrarsi le scarpe o far colazione con cinque centimetri quadrati di frittata buonissima per osservare le macchie del sole. Fortunatamente aveva conosciuto certo C., veneto, segretario al Ministero dei Lavori Pubblici, il quale lo presentò alla famiglia di un distintissimo maggiore medico dell'esercito, pure veneto, che possedeva un piano, riceveva, la sera, alcuni amici e li ristorava con un caffè eccellente, quasi unico, in quei tempi, a Torino. Quando i sette sapienti, per una ragione o per l'altra, non passavano la sera insieme, Franco andava a casa C., in piazza Milano, a far musica, a conversare d'arte con le signorine, a disputar di politica con la signora, una fiera patriota veneziana di grande ingegno e d'animo antico, che aveva tutte eroicamente affrontate le durezze e le amarezze dell'esilio, incuorando il marito i cui primi passi erano stati assai difficili e amari; perché a lui, già reputatissimo professore dell'Università di Padova, le care, benedette teste oneste e dure della rigida amministrazione piemontese avevano imposto di subire un esame se voleva diventare capitano medico, niente meno.
La corrispondenza fra Torino e Oria non rispecchiava lo stato vero degli animi di Franco e di Luisa, correva liscia, affettuosa, certo con molti ritegni e cautele da una parte e dall'altra. Luisa si era figurata che Franco avrebbe risposto alla sua letterina e sarebbe entrato nel grande argomento.
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