Ritornammo alle tre. Lo zio giuocava a tarocchi col curato, con Pasotti e col signor Giacomo. Il curato aveva la Gazzetta Ticinese e si era molto parlato di Sebastopoli. Si capisce che Pasotti ha una gran rabbia come tutti i tedesconi. Invece il signor Giacomo era tutto intenerito per il suo Papuzza e il curato propose di bere una bottiglia alla salute di Papuzza. Allora lo zio Piero gli domandō se non aveva vergogna, egli prete, di festeggiare le buone fortune di Papuzza. "Mi l'era per bev", brontola il curato. "L'č ben che ghe n'č minga", risponde lo zio. Il curato brontolō peggio di prima e lo zio, per consolarlo, gli fece una dotta dissertazione sui dialetti lombardi, concludendo: "Ghe n'č no, ghe n'č minga e ghe n'č miga".
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Non credo che Pasotti verrā pių in casa nostra. Me ne rincresce per quella povera Barborin che non potrā pių venirci neppur lei, temo; ma non mi pento di quel che ho fatto.
Egli sa benissimo che sei a Torino da un pezzo, come qui lo sanno tutti. Ne ha parlato persino col Ricevitore, me lo disse la Maria Pon che stando alla cappella del Romėt li udė mentre scendevano discorrendo ad Albogasio Superiore. Quando č venuto da noi ha affettato sempre d'ignorarlo e ha domandato le tue notizie con quelle sue solite smancerie di premura e di amicizia. Oggi mi trova sola in giardinetto, mi domanda quanto ancora starai assente e se adesso sei a Milano. Io gli rispondo netto che mi meraviglio della sua domanda. Egli diventa pallido. "Perché?", dice. "Perché Lei va dicendo che Franco č in ben altro luogo.
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