Poi, nel lamento monotono che la pioggia minuta e fitta metteva a tutte le finestre aperte, il silenzio della casa parve divenuto più sepolcrale. La sala, il corridoio andavano diventando bui, vi si andò avvivando il debole chiaror di candele che usciva dall'alcova. La gente cominciò a ritirarsi, un'ombra dopo l'altra, silenziosamente, in punta di piedi. Si udivano poi sul ciottolato della via gli scarponi pesanti, passi senza voci. La Cia si avviò pian piano al suo padrone, gli sussurrò all'orecchio se non volesse prendere qualche cosa. Egli la fece tacere con un gesto brusco.
Dopo le sette, essendo partiti tutti gli estranei alla famiglia meno il Toni Gall, Ismaele, il professore, l'Ester e tre o quattro donne ch'erano nell'alcova, si udirono dei gemiti lunghi, sommessi, che quasi non parevano umani. Il dottore entrò in sala. Non ci si vedeva. Urtò in una sedia e disse forse: "C'è qui il signor ingegnere?". "Scior sì", rispose il Toni Gall e andò a pigliar un lume. L'ingegnere non parlò né si mosse.
Il Toni Gall ritornò presto con un lume e il dottor Aliprandi, che mi piace ricordar qui come un franco galantuomo, una bella mente e un nobile cuore, si avvicinò al canapè dove sedeva lo zio Piero.
Signor ingegnere
, diss'egli con le lagrime agli occhi, "adesso bisogna che faccia qualche cosa Lei."
Io?
, rispose lo zio Piero alzando il viso.
Sì, bisogna almeno cercare di condurla via. Bisogna che venga Lei e ci metta una parola. Lei è come un padre. Questi sono i momenti del padre.
Lo lasci stare, il mio padrone
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