Luisa fu intenerita, non dalle parole, ma dal pianto e rispose con dolcezza: "L'à capii che ghe credi minga, mi, al So Paradis! El me Paradis l'è chi!".
L'Aliprandi fece al curato un gesto di preghiera e quegli usci singhiozzando.
Il medico parti da Oria verso la mezzanotte insieme al professore. Tutta la casa taceva, neppur dall'alcova usciva più alcuna voce. L'Aliprandi aveva passate le ultime due ore in sala, col professore ed Ester, senza udir mai un grido né un gemito né un movimento qualsiasi. Era andato due volte a guardare. Luisa stava seduta sulla sponda del suo letto con i gomiti sulle ginocchia e la faccia tra le mani, contemplando il lettuccio che l'Aliprandi non poteva vedere. A lui questa immobilità nuova dispiaceva quasi più che la sovreccitazione di prima. Poiché Ester intendeva restare tutta la notte, le raccomandò che tentasse, con discrezione, di scuoter la sua amica, di farla piangere e parlare.
A vegliare con Ester si trattenevano altre donne del paese e Ismaele che doveva partir per Lugano alle cinque. Lo zio Piero era andato a letto.
L'Aliprandi e il professore si fermarono sul sagrato a guardar la finestra illuminata dell'alcova, ad ascoltare. Silenzio. "Maledetto lago!", fece il dottore, pigliando il braccio del suo compagno e rimettendosi in via. Certo egli pensava, così dicendo, alla dolce creaturina che il lago aveva uccisa, ma v'era pure nel suo cuore il dubbio che altri guai fossero in cammino, che l'opera sinistra delle acque perfide non fosse ancora compiuta; e v'era una pietà immensa per il padre, per il povero padre che non sapeva ancora niente.
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