Il signor Giacomo Puttini non s'era più riavuto bene dal colpo di quella mattina, dal tradimento dell'avvocato, dalla fine tragica del cappellone e dalla fine comica del "marsinon", aveva perduto ogni stima per i patrioti. Appunto nel febbraio del '59 il Paolin, tedescone, gli parlava alla farmacia di S. Mamette delle pazze speranze dei liberali. "No, signor Paolo riveritissimo", gli disse l'ometto. "Mi son nato soto San Marco, gran santo; go visto i franzesi, bona zente; adesso vedo i tedeschi, lassemo star, podaria vederghene anca dei altri ma i birbanti, La me creda, i birbanti no pol trionfar." Il dottor Aliprandi era già in Piemonte. Un vecchio sott'ufficiale di Napoleone che abitava a Puria si rimetteva segretamente in ordine l'uniforme con l'idea di presentarsi all'imperatore dei francesi quando venisse in Italia. Il curato di Castello, Introini, quando incontrava don Giuseppe Costabarbieri, gli ricordava la canzone del 1796 che don Giuseppe aveva tirata fuori nel 1848 e poi nascosta da capo:
Stare nostre crante ulaneQua fenute d'Ungheria,
Ma franzose crante...!
Fato tuti scappar fia!
E don Giuseppe, tutto spaventato: "Citto, citto, citto!"
Intanto sui pendii di Valsolda fiorivano pacificamente le viole come se nulla fosse. La sera del venti febbraio Luisa ne portò un mazzolino in Camposanto. Ella vestiva ancora a lutto, era terrea, macilenta, aveva gli occhi più grandi e molti fili d'argento in testa. Pareva che dal giorno della sua sventura fossero passati vent'anni. Uscita dal Camposanto si avviò verso Albogasio e si accompagnò ad alcune donne di Oria che andavano a dire il rosario alla parrocchia.
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