Per venire da don Giuseppe, Maironi aveva detto in casa che si pigliava un giorno di riposo e che desiderava rivedere l'abbazia benedettina di Praglia. Adesso aveva poca voglia di andarci. Don Giuseppe lo incoraggiò. Era così magnificamente triste, l'antico monastero! Era così propizio, nella sua maestà cinta di solitudine, ai pensieri di cui Maironi aveva maggior bisogno! Il vecchio si animava tutto in viso parlando dei cortili eleganti e severi, della Crocifissione di Bartolomeo Montagna che stava nel refettorio e anche dell'indegno abbandono in cui l'insigne monumento era lasciato dal Governo, degli strazî maggiori che si temevano allora e che furono compiuti più tardi: assassinio vile di un vecchio glorioso, delitto consumato nel silenzio, col favore della solitudine.
Maironi, distratto, lo ascoltava male. Pensava all'altra solitudine lontana della Valsolda. Proprio il giorno prima gli avevano scritto di là che il mandarino del giardinetto pensile era uscito malconcio assai dall'invernata dura, che l'antica passiflora della terrazza era morta, che occorrevano riparazioni al tetto della sala e alle palizzate delle fondamenta nel lago, e che si sperava in una prossima visita del padrone. Mentre don Giuseppe gli parlava del doloroso abbandono in cui giaceva Praglia, egli aveva in mente la casetta deserta dov'erano morti suo padre e sua madre e dov'egli non faceva che due apparizioni l'anno: il giorno dei morti e nel maggio per provvedere il giardinetto di fiori. Il prete sentì di non essere ascoltato e tacque.
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