Aveva persino portato a Venezia i propri brillanti per farli stimare. Dal medico che le aveva recato la parola preziosa, si era fatto scrivere una specie di monito ufficiale che se l'Elisa uscisse guarita converrebbe collocarla in un soggiorno affatto nuovo per essa. Quando le fu riferito che certo amministratore di un Istituto pio, persona intima di Zaneto, lavorava per indurlo a una munificenza, si spaventò, stimò giunto il momento di agire e parlò a Zaneto. Zaneto si commosse, pianse di gratitudine, abbracciò sua moglie e le disse in tono patetico, chiamandola "vecia mia", il suo affetto, non tanto alla casa e alle terre de' suoi avi quanto alla città nativa. Se Iddio concedesse loro la straordinaria grazia di quella guarigione, poteva bastare un'assenza temporanea, un viaggio, un breve soggiorno altrove. A ogni modo ci si sarebbe pensato allora. Perchè affrontare un trambusto simile, un vero cataclisma, nella previsione di avvenimenti pur troppo incerti? La marchesa volle far allusione al pericolo di villa Diedo ma si spiegò così disgraziatamente male che il bravo Zaneto non durò fatica a sgominarla con una carica di rettorica ottimista.
Egli chiese poi, tutto umile, il perchè di questo imporgli condizioni. Qui trovò duro. La cara "vecia mia" gli rispose risolutamente che voleva vederlo "meterse quieto" e che il solo modo per lui di "mettersi quieto" era quello proposto da lei. Allora Zaneto si ritirò accigliato dentro le trincee della propria dignità. Nemmanco intendeva ciò che questo "mettersi quieto" significasse.
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