Ecco le ochediss'ella con la sua serenità blanda nell'appressarsi al microbo giallognolo e inquieto che si pigliava con beata vanagloria il nome di lago. "Ecco le oche. Le xe arene." Don Giuseppe le spiegò pazientemente che le oche non erano anitre, che i suoi palmipedi erano un duplice popolo.
In quel momento un languido raggio di sole avvivò la scena pastorale, le acque inquiete, il gruppo di pioppi tremoli che le fiancheggia, il verde ovale della prateria cui l'obliquo poggio boscoso e una diga di alta verzura corrono a chiudere insieme in uno sfondo nero di abeti. Quel tale grosso nervo paralitico della marchesa si contrasse un poco. "Belo" diss'ella "don Giuseppe, el cossa xelo, el prà."
Don Giuseppe non rispose. Contemplava. Quel posto del giardino era il suo prediletto. Aveva sognato un tempo giuochi e risa, nella prateria, di bambini del suo sangue, nipoti e pronipoti. Adesso, ammirando con la sua perenne freschezza di spirito i capricciosi amori della luce e del verde, ripensava il proprio testamento, fatto da pochi mesi, dopo lunghe incertezze e meditazioni, la villa e il podere diventati residenza e ricchezza di sei vecchi parroci della diocesi e di sei vecchi medici condotti della provincia, impotenti e bisognosi; immaginava i suoi eredi squallidi a passeggio nel prato.
La marchesa soggiunse che per l'Elisa, se mai avesse a uscire di là, ci sarebbe voluto un soggiorno simile. Don Giuseppe s'infiammò subito, offerse villa e giardino con tanto fuoco che la marchesa, sorridendo fra le lagrime, gli prese un braccio al polso, glielo tenne stretto a lungo in silenzio, per fargli capire che lo ringraziava e insieme che non c'era da correr tanto con le speranze.
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