Si rideva della signora che la sera dell'eclissi andava giurando di non rimetter piede a villa Diedo e che, ricevuto l'invito, aveva telegrafato a Venezia per una toilette. Si rideva degli infruttuosi sforzi della contessa Importanza per appioppare a Carlino la contessina Importanzèta, sforzi caritatevolmente secondati da certa benigna dama senza figliuole.
La Raselli entrò ultima con le due signorine nella villa perchè, giunta al cancello, si avvide di avere smarrita la nappina del ventaglio, e con grandissima rabbia delle compagne volle a ogni costo, malgrado le confessate imperfezioni delle piante, rifare la via sino al fondo: "Via, tose, tasì, ch'el gera tanto un bel fiocheto. Tasì, çerchè, disì el si quaeris anca vualtre", che fu poi tutto invano.
Villa Diedo, il bel dado a trafori dal diadema di statue, saliva biancastro, con i trafori tutti accesi, sopra le due terrazze brune di gente, verso un caos fosco di nuvole senza luna, simile nel suo culminare a un alto, enorme fiore del poggio. E nel fiore e intorno al fiore animato di fiamme era un fervore di piccoli viventi, accorsi al lume e all'odore di godimento. Molte farfallucce vane, qualche fatua falena, molti moscerini curiosi, qualche maligna zanzara, non pochi scarabei di pregio, non poche nobili api vi facevano un ronzìo continuo, molesto, forse, alle cose immobili, adoranti, nella notte augusta, come ai devoti nelle cattedrali un pertinace battibecco di sagrestani e di femminucce. Solo i rosai abbracciati ai balaustri della terrazza di ponente avevano fremiti e moti come se la domesticità lunga avesse loro propagato il senso del piacere umano.
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