Ogni cosa vi ha l'impronta di un sentimento, di una personale idea di bellezza, che ci movono a sospirare per un triste, indefinibile senso dell'assenza di qualcuno che ivi passò e che avremmo amato. All'erboso velluto di un pratolino appuntato nel faggeto fra due curve ali di scaglioni petrigni dove grandi abeti montarono, scena di preludi amorosi, segue, sotto le dense, distorte braccia dei faggi, un dedalo cadente di muscosi giacigli cavi nell'ombra chiara e verde come acqua immobile di lago in un vallone del fondo. Il sentiero che gira l'omero ignudo di un colle a scoprir lontane conche di pascoli, lontane guardie di acuti abeti allineati su alture terminali di quel paradiso, sdrucciola di là verso l'orlo di una coppa vuota incavata nel prato quasi dal roteare di un vortice, ove fu dolce a qualcuno giacer sul fondo, contemplar il cratere imminente in giro, le felci pendule, gli ellebori, i ciclami, e sopra, nel bianco disco di cielo, il veleggiar eterno delle nubi. Il viandante ode tratto tratto nel vento vagabondo le diverse voci degli alberi diversi, le umili e le superbe, le tenere e le gravi. Vede sparsi nel bosco sedili di pietre candide, radi sedili di contemplatori solitari, adunati sedili di assemblee, scolpiti di geroglifici indecifrabili come i colloqui degli alberi, forse lavoro di uditori antichi, note di canti aerei fermate nel sasso, forse ricordo ai venturi di chi passò. Ma sopra il verde lucente dei faggi, sopra le conche dei pascoli e gli omeri ignudi dei colli ricompare uniforme ad ogni passo il pensiero dominante del poema, l'obliquo alato Picco Astore; e in giro alle alte sue tristi nudità ricompaiono, dovunque i sentieri cavalcano un dorso prominente, assise nei loro manti come gli amici di Job, le grandi montagne nubifere di Val di Rovese e di Val Posina.
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