Io, mezzo tra paura e speranza, ma un poco più vicino alla paura, la sera del ventiquattro del mese mi ridussi, avanti che si colcasse il sole, nell'agloggiamento; avendo veduto quasi la più parte delle donne della città, ricordevoli più del pericolo che della vergogna, a piedi nudi, coi capelli sparsi, coi bambini in braccio andare visitando le chiese, e piangendo chiedere a Dio misericordia.
Venne la sera, e il cielo era più sereno del solito, e i servidori miei dopo cena andaro presto a dormire; a me parve bene d'aspettare per vedere come si ponea la luna, la quale credo che fosse settima, ed aperta la finestra che guarda verso occidente, la vidi avanti mezzanotte ascondersi dietro il monte di San Martino con la faccia piena di tenebre e di nubi; e serrata la finestra, mi posi sopra il letto, e dopo d'avere un buon pezzo vegliato, cominciando a dormire, mi risvegliò un rumore ed un terremoto, il quale non solo aperse le finestre e spense il lume che io soglio tenere la notte, ma commosse dai fondamenti la camera dove io stava. Essendo adunque in cambio del sonno assalito dal timore della morte vicina, uscii nel chiostro del monasterio, ove io abito; e mentre tra le tenebre l'uno cercava l'altro, e non si potea vedere se non per beneficio di qualche lampo, cominciammo a confortare l'un l'altro. I frati e il priore, persona santissima, che erano andati alla chiesa per cantare mattutino, sbigottiti da sì atroce tempesta, con le croci e reliquie di santi, e con devote orazioni, piangendo, vennero ove io era con molte torce allumate: io, pigliato un poco di spirito, andai con loro alla chiesa, e gittati tutti in terra non facevamo altro che con altissime voci invocare la misericordia di Dio, ed aspettare ad ora ad ora che ne cadesse la chiesa sopra.
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