Da sì fatto sentire scaturì una fonte più copiosa di conforto per Dante che pel Petrarca.
Mentre ch'io era a Virgilio congiuntoSu per lo monte che l'anime cura,
E discendendo nel mondo defunto,
Dette mi fur di mia vita futuraParole gravi; avvegna ch'io mi senta
Ben tetragono ai colpi di ventura.
Ben veggio, padre mio, sì come spronaLo tempo verso me per colpo darmi
Tal ch'è più grave a chi più s'abbandona:
Perchè di provedenza è buon ch'io m'armi.
O sacrosante vergini, se fami,
Freddi o vigilie mai per voi soffersi,
Cagion mi sprona ch'io mercè ne chiami.
Or convien ch'Elicona per me versi,
E Urania m'aiuti col suo coroForti cose a pensar, mettere in versi.
E, s'io al vero son timido amico,
Temo di perder vita tra coloroChe questo tempo chiameranno antico.
E da lettera di Dante novellamente scoperta appare, che circa l'anno 1316 gli amici di lui riuscissero a ottenere ch'ei fosse rimesso in patria e ne' beni, sol che scendesse a patti co' suoi calunniatori, si confessasse colpevole e chiedesse perdono alla Repubblica. Ecco la risposta che in tale occasione il poeta indirizzò a uno de' suoi parenti ch'ei chiama "Padre" forse perchè ecclesiastico, o, più probabilmente, perchè più vecchio di lui.
XVII. "Per lettere vostre, con debita riverenza e affezione accolte, ho compreso con grato animo e diligente considerazione quanto il mio ripatriare stiavi a cuore; però che tanto più strettamente mi obbligaste, quant'è più raro ch'esuli trovino amici. Al contenuto di esse poi rispondo, e (se non a quel modo che forse vorrebbe la pusillanimità d'alcuni) affettuosamente vi prego che, prima di giudicarne, vogliate pigliare con maturo consiglio a ventilare la risposta.
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