Però da pochissimi fatti e da osservazioni che sfuggono l'altrui attenzione seppe dirigere il progresso futuro ed inevitabile d'una lingua; e prevedere senza ingannarsi, che quella lingua o doveva perire, o mantenersi secondo le sue predizioni. Infatti che la lingua italiana non sia parlata neppur oggi apparisce a chiunque abita, e a chiunque traversa quella Penisola. Le persone educate negli altri paesi d'Europa si giovano della lingua nazionale, e lasciano i dialetti alla plebe. Or questo in Italia è privilegio solo di chi, viaggiando nelle provincie circonvicine, si giova d'un linguaggio comune tal quale tanto da farsi intendere, e che potrebbe chiamarsi mercantile ed itinerario. Bensì chiunque, dimorando nella sua propria, si dipartisse appena dal dialetto del municipio, affronterebbe il doppio rischio e di non lasciarsi intendere per niente dal popolo, e di farsi deridere nel bel mondo per affettazione di letteratura. I dialetti italiani d'oggi sono probabilmente mutati di molto da quello che Dante udiva parlare. Egli ne contò quattordici principali, suddivisi all'infinito, come notammo, - nè oggi il loro numero è forse minore; - e la loro disparità è sì prominente, che un Bolognese e un Milanese non si intenderebbero fra di loro, se non dopo parecchi giorni di mutuo insegnamento. Inoltre, che la lingua italiana sia stata sempre scritta con le medesime forme apparirà dal solo confronto con le due lingue più letterarie dell'Europa moderna, le quali per essere state insieme parlate e scritte, mutarono la loro ortografia in guisa, che pochi Inglesi, fuochè i dottissimi, possono leggere e intendere le lettere di Chaucer, e pochi Francesi i libri di Rabelais.
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