Quindi si trova, fra le altre singolarissime cose, che fin anche i commenti a spiegare il poema di Dante scritti da principio in italiano, erano poco dopo tradotti in latino; e che i professori nelle cattedre dichiarando da critici un poema che non ha veruna sembianza a' poeti romani, si servivano ad ogni modo della lingua latina. Anzi, fra quanti vecchi codici si vanno scoprendo più sempre di quel poema, le postille interlineari e marginali sono tutte latine.
Ma qui pure emergono a un tratto contradizioni, per le quali i ragionamenti non possono mai venire a conclusione sicura. Abbiamo veduto che il Petrarca e il Boccaccio, per tacere di altri molti, studiarono per tutta la loro vita la lingua latina, nella quale scrissero le loro opere più importanti e di maggior volume. E nondimeno chi più del Petrarca trovò l'eleganza, il calore, la rapidità e l'armonia della lingua ne' versi? Chi più del Boccaccio nella prosa? Molto certo dipendeva dalla onnipotenza del genio; ma il genio nasce, come nascono gli uomini, in ogni secolo; l'uso lo rinvigorisce e lo fa risplendere come acciajo di coltello continuamente adoprato; il disuso lo irrugginisce e lo confonde con la brutta materia del ferro. Bensì le circostanze de' tempi, derivanti dalle vicissitudini politiche delle nazioni, o promovono, o impediscono, o dirigono i lavori del genio; e talvolta l'occupano in cose, le quali per loro natura producono sterile premio; e lo disviano da altre che gli preparavano gloria maggiore.
Sin da principio del secolo che ora osserviamo, l'Italia cominciava a quietarsi.
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