Spesso accade che il libro esaltato non per altro che per il merito della lingua dai dottissimi uomini d'una città, viene esecrato dagli uomini dottissimi d'un'altra città, appunto per i demeriti della lingua.
Frattanto que' primi ordinatori della lingua nel discorso giornaliero facevano uso di dialetti discordi, i quali repugnavano a scriversi. Il dialetto fiorentino s'era immiserito, e diveniva sempre più ritroso alla penna; e quel che è peggio, nelle scritture era oggimai intarsiato di crudissimi latinismi. Pare che non potessero mandare una lettera a' loro domestici, che non fosse pedantesca. Quando poi sul principio del secolo decimosesto vollero pur provvedere l'Italia di una lingua sua propria, s'avvidero che innanzi tratto bisognava depurarla dalla troppa latinità: ma in questo andarono all'altro estremo, appunto perchè temevano di non si poter reggere equabilmente nel centro. Il Bembo e gli altri avevano studiato fin dalla puerizia e scritto e pensato d'ogni cosa letteraria in latino. E non pure l'ammirazione a' grandi esemplari, ma i precetti rettorici degli autori romani, e la necessità di secondarli in una lingua morta, gli aveano domati alla servitù dell'imitazione. Era radicato nella loro anima il dogma, che a scrivere in qualunque lingua fosse necessario imitare religiosamente alcuni modelli; e in italiano non avevano, dal poema di Dante in fuori, alcuna opera nella quale la moltitudine, la novità e la profondità delle idee, delle immagini e delle passioni avessero partorito gran numero e varietà di locuzioni e parole, ed energia di ardita sintassi.
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