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      E' non era il solo; bensì il più celebre di quella scuola. Tuttavia la massima e la pratica de' letterati di quell'età consistevano non tanto a ricavare un metodo dalle osservazioni, quanto a imitare puntualmente, servilmente, puerilmente gli scrittori che parevano eccellenti. In poesia italiana copiavano il Petrarca e cantavano santamente d'amore. In latino imitavano Virgilio e Cicerone, e scrivevano profanamente di cose sacre. Così la dottrina di ristringere tutta una lingua morta nelle opere di pochi scrittori fu più assurdamente applicata alla lingua viva degli Italiani; e i loro critici quasi tutti convennero, non doversi attingere alcun esempio da veruna poesia, fuorchè dal canzoniere amoroso del Petrarca per Laura; nè alcun esempio di prosa da scrittore o scritto veruno, fuorchè dalle novelle del Decamerone. Con quanto frutto della religione, non pretendiamo di dirlo; ma la letteratura purtroppo discese effemminatissima a molte generazioni. Quindi i protestanti pigliarono argomento ad imputare a que' letterati pochissimo riguardo a' costumi, e niun senso di religione. La prima accusa è esagerata, e l'altra è assurdissima. Erasmo imputavali di sacrilegio, e derideva a un'ora l'ignoranza fratesca e la latinità non cristiana in Italia, a fine di spianare per tutti i modi la via alla riforma nelle Università di Germania e d'Inghilterra; e giudicavali secondo la tradizione della miscredenza de' prelati di Leone X. Pur, se non tutti, moltissimi sentivano la fede che professavano, ed erano talor combattuti da superstizioni contrarie.


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Sulla lingua italiana
Discorsi sei
di Ugo Foscolo
Istituto Editoriale Italiano
1914 pagine 176

   





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