Tuttavia l'Accademia della Crusca temeva che nelle edizioni fin allora uscite, ed erano quasi sessanta, l'emendazioni di critici forestieri, così allora chiamavan gli Italiani, la fama delle novelle del Boccaccio e la purità della lingua fosse guastata. Patteggiarono dunque di potere, non foss'altro, stamparne una mutilata in Firenze; e confidavano che l'utilità della loro emendazione grammaticale sarebbe compenso equivalente allo strazio che il ferro e il fuoco del Santo Uffizio farebbe de' tratti più comici nelle novelle. Cosimo I, per agevolare il trattato, deputò a negoziare col maestro del sacro Palazzo in Vaticano alcuni uomini dotti, uno de' quali era vescovo, e quasi tutti ecclesiastici in dignità; e fra gli altri Vincenzo Borghini illustratore delle antichità toscane, e scrittore non pedantesco: ma i nomi degli altri sono men noti alla storia letteraria d'Italia, che a' fasti consolari, com'ei li chiamavano, delle loro accademie. Le nuove alterazioni al Decamerone mandate a Roma erano quasi sempre lodate; ma non bastavano. Il maestro del sacro Palazzo, frate domenicano e spagnuolo, si aggregò di proprio diritto alla loro adunanza. Scrivendo le sue opinioni in lingua bastarda, dava consiglio anche in virtù della sua autorità di grammatico; non però venivano a conclusione. Finalmente un domenicano italiano e di natura più facile (chiamavasi Eustachio Locatelli, e morì vescovo in Reggio) vi s'interpose; e per essere stato confessore di Pio V, impetrò da Gregorio XIII, che il Decamerone non fosse mutilato, se non in quanto bisognava al buon nome degli ecclesiastici.
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