Ma qui stando, non foss'altro co' miei pensieri, presso a Teresa – perch'io regno ancor tanto sopra di me, ch'io lascio passare tre e quattro giorni senza vederla – pur il solo ricordarmene mi fa provare un foco soave, un lume, una consolazione di vita – breve forse, ma divina dolcezza – e così mi preservo per ora dalla assoluta disperazione.
E quando sto seco – ad altri forse nol crederesti, o Lorenzo, a me sì – allora non le parlo d'amore. È mezz'anno oramai da che l'anima sua s'è affratellata alla mia, e non ha mai inteso uscire fuor delle mie labbra la certezza ch'io l'amo. – Ma e come non può esserne certa? – Suo padre giuoca meco a scacchi le intere serate: essa lavora seduta accanto a quel tavolino, silenziosissima, se non quanto parlano gli occhi suoi; ma di rado: e chinandosi a un tratto non mi domandano che pietà. – E qual altra pietà posso mai darle, da questa in fuori di tenerle, quanto avrò forza, tenerle occulte come più potrò tutte le mie passioni? Né io vivo se non per lei sola: e quando anche questo mio nuovo sogno soave terminerà, io calerò volentieri il sipario. La gloria, il sapere, la gioventù, le ricchezze, la patria, tutti fantasmi che hanno fino ad or recitato nella mia commedia, non fanno più per me. Calerò il sipario; e lascierò che gli altri mortali s'affannino per accrescere i piaceri e menomare i dolori d'una vita che ad ogni minuto s'accorcia, e che pure que' meschini se la vorrebbero persuadere immortale.
Eccoti con l'usato disordine, ma con insolita pacatezza risposto alla tua lunga affettuosissima lettera: tu sai dire assai meglio le tue ragioni: – io le mie le sento troppo; però pajo ostinato.
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Teresa Lorenzo
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