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      Ma ora s'attristeranno nel nominarmi, poiché in questi ultimi mesi passava muto e fantastico senza talvolta rispondere a' loro saluti; e scorgendoli da lontano mentre cantando tornavano da' lavori, o riconduceano gli armenti, io gli scansava imboscandomi dove la selva è più negra. E mi vedeano su l'alba saltare i fossi e sbadatamente urtar gli arboscelli, i quali crollando mi pioveano la brina su le chiome; e così affrettarmi per le praterie, e poi arrampicarmi sul monte più alto donde io fermandomi ritto e ansante, con le braccia stese all'oriente, aspettava il Sole per querelarmi con lui che più non sorgeva allegro per me. Ti additeranno il ciglione della rupe sul quale, mentre il mondo era addormentato, io sedeva intento al lontano fragore delle acque, e al rombare dell'aria quando i venti ammassavano quasi su la mia testa le nuvole, e le spingevano a funestare la Luna che tramontando, ad ora ad ora illuminava nella pianura co' suoi pallidi raggi le croci conficcate su i tumuli del cimitero; e allora il villano de' vicini tugurj, per le mie grida destandosi sbigottito, s'affacciava alla porta, e m'udiva in quel silenzio solenne mandare le mie preci, e piangere, e ululare, e guatare dall'alto le sepolture, e invocare la morte. O antica mia solitudine! Ove sei tu? Non v'è gleba, non antro, non albero che non mi riviva nel cuore alimentandomi quel soave e patetico desiderio che sempre accompagna fuori dalle sue case l'uomo esule, e sventurato. Parmi che i miei piaceri e i miei dolori, i quali in que' luoghi m'erano cari – tutto insomma quello ch'è mio, sia rimasto tutto con te; e che qui non si trascini pellegrinando se non lo spettro del povero Jacopo.


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Ultime lettere di Jacopo Ortis
di Ugo Foscolo
pagine 175

   





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