Ma non doveva FRANCESCO esser [88] Legato, che nell'Empireo. Come tale s'introduce nella Corte del Rege Napolitano, e di Ulisse più prode non si tura l'orecchio per non sentir di Partenope le Sirene, ma coll'aprir la bocca le fa divenire stupide, e mute. Tali rimasero i Cortigiani di Ferdinando, alla cui presenza, fa dalle Monete spezzate grondar'il Sangue, che havean succhiate le voglie ingorde, dalle vene de' Popoli smunte. Mentre FRANCESCO tormenta l'Oro, confessa quel Porporato nel suo pallore il suo fallo, e stilla altrettante lagrime di compuntione dal cuore indurito, quante gocciole vede cadere da quel Metallo adorato. Arrossisce confuso a quell'oggetto sanguigno, e palpitoso nel suo pentimento tremante conosce non haver di Re, che il Reato, mentre del suo Sovrano scordandosi, vede ben chiaro, che gli sta contro, ogni suo Diletto divenuto Delitto, e che sono perdite eterne i temporanei guadagni. Così ravvedutosi, mentre chiude gli occhi, per un poco alla Vanità, si assicura nel suo timore, ma non persevera nel suo proposito.
Usciamo pure con FRANCESCO da questa Corte, poiché con zelo vaticinante non vi predice il Veridico, che Sterilezza di Prole Scettrata, effetto di Colpa, feconda solo di Mali, e dall'oppressione de' Sudditi afflitti l'abbassamento de' Principi infastositi.
[89] Accompagniamolo verso Roma, dall'Ubbidienza verso la Santa Sede, ma non dall'Aura di un regio invito sospinto. Ei lascia, pria di partire dal Regno, con un carbone delineata l'Imagine di sé stesso, che gli vien richiesta, sopra di una parete: Forse ad esprimersi in quelle botte caliginose, coll'Humiltà sua nativa, per huomo oscuro; O perché da quella nerezza fuliginosa più fulgido, come dall'opposto, il di lui candore risplenda; O pure per figurarsi tutto di fuoco, poiché si dipinge col suo carbone più chiaro, ch'Io non so fare col mio inchiostro.
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