E così, continuando di perdersi di sera in sera maggiore e maggior parte dell'emisferio splendido della Terra, il candore si fa a poco a poco impercettibile, sendo anco di gran pregiudizio a gli occhi del riguardante la presenzia della parte molto lucida della Luna, che confina con quello che di lei resta privo della illuminazione del Sole. Al che possiamo aggiugner ancora (come punto di gran considerazione) la chiarezza che il medesimo lume lunare introduce nel suo ambiente, la qual chiarezza è tanta, che ci offusca e toglie la vista delle stelle fisse, le quali anco per assai grande spazio son lontane dalla Luna; tal che molto meno ci deve restar cospicuo il candore, anco per altro, tenuissimo fatto.
Parmi, Serenissimo signore, d'aver sin qui a bastanza dimostrato come l'opinion mia resta illesa da questa sua prima obbiezzione, ed insieme aver concluso che nella sua instanza è forza che sia qualche fallacia. Séguita ora che io dichiari in quel che a me pare che la fallacia consista: ed è, s'io non m'inganno, che argumentando egli ex suppositione quello che egli suppone è mutilo; e dove egli è almanco di tre membra, ne prende solamente due lasciando indietro il terzo. Del potersi fare il candore, o altra illuminazione, maggiore o minore, ne assegna il signor Liceti due modi solamente: cioè il mutarsi la distanza tra il corpo illuminante e il corpo che si illumina, che è l'uno de i modi; e l'altro, col farsi lo splendore dello illuminante intensivamente più o meno gagliardo. Ma ci è il terzo, il quale è quando non intensivamente, ma estensivamente, si fa maggiore quella luce da cui l'illuminazione deriva: e così il lume di una torcia grande più gagliardamente illuminerà che d'una piccola candela, benché gli splendori di amendue intensivamente siano eguali.
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Lettere
di Galileo Galilei
Ricciardi Editore 1953
pagine 265 |
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