E ben che moltissime siano quelle che per la loro piccolezza restano invisibili, tuttavia veggiamo che di tali piccolissime congiuntone gran numero insieme, finalmente non formano altro che una piccola piazzetta sì poco luminosa che gli astronomi passati chiamarono con nome di stelle nebulose. E tanto basti per risposta alla seconda instanza del signor Liceti.
E venendo alla terza, senta l'Altezza Vostra Serenissima quello che l'autore scrive consequentemente, sino alle parole: «Præterea vel ipse Clarissimus Galileus, dum aliam opinionem» etc. Qui sì mi è lecito liberamente parlare, non bene resto capace de i motivi per i quali il signor Liceti inferisce, che posto che il candor della Luna derivasse dal reflesso del lume terreno, ei dovesse essere più illustre nel mezo della sua faccia oscura, che nel rimanente verso l'estremo margine; e mentre adduce per ragione di questo il ricevere le parti di mezo più lume dalla Terra, e lo sfuggire il medesimo lume dal margine estremo, spargendosi nell'ambiente, io non veggo occasion nessuna di ricever più luce nel mezo, né veggo che i raggi dello splendore terrestre debbano sfuggire dall'estremo limbo. Ciò forse accaderebbe quando il globo lunare fusse terso e liscio come uno specchio; ma egli è scabroso quanto la Terra se non più: e di questo non riceversi maggior lume nel mezo che nell'estremo ambito, pur troppo chiaramente ce lo mostra l'stessa Luna, mentre che essendo ella, nella opposizione, piena di lume del Sole, senza veruna differenza di mezo o di estremo egualmente luminosa si mostra, argumento della sua asprezza e del non sfuggire i raggi solari verso l'estrema circunferenza; che quando ella fusse tersa come uno specchio, giammai da gli uomini non sarebbe stata veduta, come io diffusamente ho dimostrato altrove.
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Lettere
di Galileo Galilei
Ricciardi Editore 1953
pagine 265 |
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