Et, per Dio Signore, ch'io mi sento così arrabbiato infin alla intima radice del cuore, ch'io non so se io mi sia vivo, o pure quel ch'io mi sia; nè so darmi a credere di dar altro luoco alla prudenza, che di lasciarmi tirar violentemente alla necessità, aspettando con ansia solo il tempo, che ammolisca in parte l'asprezza del dolore, intanto privo di ogni speranza di poter esser compensato della perdita. Et per sopramercato mi soprasta hora la cura famigliare, la quale, seben non molto grave, alle mie spalle nondimeno, che non ne sono avezze, è [per] riuscire, si può dir, incomportabile.
Quella compassione ch'io credo che V. S. me ne habbi, la supplico a far sì che, essendo stimolata per conto dell'istrumento, mi sia havuta anco da coteste Altezze Ser.me(1376), in modo che io ne conseguisca dilazione non dirò di mesi, ma di settimane; chè io, già che mi è levato il modo di mandar l'instrumento in quella ultima perfezione che desideravo, non resterò di mandarlo in quel miglior modo che io potrò, et quanto prima. Intanto me le ricordo affettuosissimo servitore, et le bacio riverente la mano.
Treviso, la vigilia delle Pentecoste, 25 Maggio 1613.
Di V. S. molto Ill.re et Ec.maSer. Oblig.mo
Paolo Aproino.
Fuori: Al molto Ill.re et Ecc.mo Sig.r, mio Sig.re et P.rone Col.moIl Sig.r Galileo Galilei.
Firenze.
883.
FEDERICO CESI a GALILEO in Firenze.
Monticelli, 30 maggio 1613.
Bibl. Naz. Fir. Mss. Gal., P. VI, T. IX, car. 54a. e 54b. - Autografa.
Molt'Ill.re e molto Ecc.te Sig.r mio Oss.mo
Mi dole continuamente la sua indisposizione; mi piace però ch'ella, co' buoni medicamenti e cure, sia intorno a discacciarla: nè s'affatighi punto nel scrivere, sebene io con le mie glie ne do materia, poichè niente più desidero che la sua sanità.
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