Sin qui son parole di V. S.: in risposta delle quali conviene che io confessi di non aver saputo spiegare il mio concetto con quella evidenza che è necessaria per ben dichiararsi, e massime quando si arrecano proposizioni remote dalle opinioni comuni. Dico per tanto che l'intenzion mia fu molto diversa, anzi del tutto contraria dal senso che V. S. ne ha cavato; avvengachè è falso che io abbia stimato che le macchine che riescano in piccolo debbano ancora riuscire in grande, tuttavolta che si osserverà le medesime proporzioni ec., anzi ho voluto dire che non possono in verun conto riuscire. Soggiugne V. S. appresso, che io ho detto che l'imperfezione della materia non è argomento buono per provare il contrario, cioè per provare che in grande non possano riuscire quelle macchine che riescono in piccolo. Anzi per l'opposito affermo che di questo non poter riuscire la cagione risiede nella materia, soggetta a mille imperfezioni, alterazioni, mutazioni e tutti quelli altri accidenti che V. S. va con esquisita particolarità connumerando, de' quali io non ho mai preteso, nè, credo, dato segno di pretendere, che se ne possa dare scienza; ma la cagione che io referisco e ripongo nella materia, è diversissima da tutte queste, e non è soggetta a variazione alcuna, ma è eterna, immutabile, e però atta ad essere sotto necessarie dimostrazioni compresa, ma, per quanto io credo, non avvertita da altri. E per meglio dichiararmi seco, piglio il suo medesimo esempio di un ponte per passare un fosso, largo, v. gr., venti piedi, il quale si trovi esser riuscito potente a sostenere e dare il transito a peso di mille libbre, e non più: cercasi ora se per passare un fosso largo quattro volte tanto, un altro ponte, contesto del medesimo legname, ma in tutti i suoi membri accresciuto in quadrupla proporzione, tanto in lunghezza quanto in larghezza ed altezza, sarà potente a reggere il peso di 4000 libbre.
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