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      Egli medesimo mi mandņ la sua risposta all'Apologia(1047) del Lansbergio De motu terrae(1048); nel fine della quale risposta, fuor d'ogni proposito, (et egli stesso il confessa) aggiugne un capitolo(1049), dicendo che in esso obiter agitur de libro Galilei edito pro telluris motus fucata defensione(1050), deque S. Sedis Apostolicae sententia in ipsum librum et Galileum lata, nec non eiusdem Galilei publica abiuratione(1051) doctrinae illius erroneae. Hor puossi(1052) vedere impertinenza maggiore, e luogo topico pił ingegnoso di questo ad meam captandam benevolentiam? Ma egli accresce ancora la sua imprudenza (per non gli dar altro titolo), mentre che soggiugne che havrebbe aggiunta la sentenza e abiurazione fatta in Roma, ma ha stimato meglio il tacerla per sostentar la mia fama; et č in tanto cosģ privo di giudizio, che il tacerla non solo non sostiene il mio honore, ma grandemente l'aggrava, mentre da questo suo tacere il lettore sicuramente farą coniettura(1053) il mio delitto essere stato gravissimo, dove che non č stato altro che l'haver avuto i superiori sospetto ch'io inclinassi all'opinione del moto dannato. Assai dunque meno mi havrebbe offeso il Morino publicando che tacendo mie sentenze e abiurazioni. Nč anco č temeritą leggera l'asserire, ch'ei fa, d'havere io pagliatamente e con fuco et simulazione voluto diffendere il moto della terra, mentre io non parlo mai ressolutamente di nulla, ma ben sempre mi rimetto(1054) alla determinazione de' superiori.
      E poi ch'in questo suo medesimo capitolo mi dą assai pronta occasione di mostrar quanto ei sia pronto ad attribuirsi le invenzioni d'altri, metto(1055) in considerazione a V. S. Ill.ma la soluzione di certo accidente, dagli antichi tutti filosofi e astronomi portato per argomento validissimo per la stabilitą della terra, osservato nei gravi cadenti a perpendicolo, il quale accidente stimarono non potere accadere quando il moto diurno fosse della terra; in confermazione di che adducevano l'essempio della nave, nella quale, mentre č ferma, il cadente dalla sommitą dell'albero credettero(1056) che cadesse al pič di detto albero, ma non gią quando la nave caminasse(1057). Io, contro a questo, dico la caduta terminare nel medesimo luogo appunto(1058), muovasi la nave o stia ferma, e di ciņ ne rendo la ragione(1059), mostrando l'errore degl'antichi; e concludo, tale esperienza essere del tutto vana, nč potersi raccor nulla nč per la parte affirmativa nč per la parte negativa del moto del quale si parla.


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Le opere di Galileo Galilei
Volume XVI. Carteggio 1634-1636
di Galileo Galilei
Barbera Firenze
1964-1965 pagine 744

   





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