Siam qui noi per emancipazione del diritto e della coscienza, per la libertà della patria (e questa seconda parte era meglio capita) o siamo venuti per rubare, spogliare il tempio, e manomettere i sacri stupendi lavori dell'arte che i nostri padri affidarono a noi per tramandarli alla più remota posterità?
E qui con licenza del santo martire della libertà italiana, io confesso esser di altra opinione.
Se l'Italia invece d'essere un pantheon di memorie e d'opere insigni, fosse un po' men ricca d'arte ma più robusta, cioè in luogo di templi, avesse ginnasi ed opifici, ed in luogo di tanti Ciceroni, avesse cittadini operosi e forti, essa certamente cesserebbe d'esser mancipia dello straniero più robusto ed operoso di noi, quindi se in luogo di limitarsi a bruciare alcuni confessionali, i romani del 49 avessero scaraventato nell'incendio quante mitre insudiciano grottescamente le grandiose opere d'arti, che adornano il primo tempio del mondo, anche a rischio di frantumare qualche capolavoro, forse sulle ceneri calde del suo covile non sarebbe tornato il maledetto mitrato nemico dell'Italia.
Comunque sia la parola autorevole di Cicerovacchio fermò la moltitudine che già aveva cominciato ad avviarsi verso il grandissimo tempio, ed un nembo di evviva ad Angelo Brunetti(66) scoppiò nella folla dei discendenti di Virginio e di Dentato, uomini che credo operassero più e gridassero meno di noi moderni italiani.
Il rapitore d'Ida, che s'era innalzato sulla punta dei piedi per gettare tra il popolo l'eccitamento al bottino, si rannicchiò piccin piccino, si confuse nella folla e dileguossi con una celerità che sarebbe sembrata sorprendente, se la comparsa della bella e maschia figura di Martino Franchi, illuminata dall'incendio, non avesse avuto luogo contemporaneamente alle ultime parole del tribuno romano.
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