La mia povera madre, che mi amava teneramente, era sovente essa stessa vittima di quel mostro. E guai s'essa avesse avuto l'aria di difendermi. Ciò più mi feriva ancora dei maltrattamenti usati al mio corpiccino da quello scellerato, perchè anch'io amavo tanto la mia buona genitrice.
Il mio patrigno era un cocchiere e teneva vettura d'affitto. Non occorre dire che appena mi sentii capace di guidare un veicolo, egli stesso m'imbarcava sopra il sedile, se no eran staffilate peggio dei cavalli. Colla differenza ch'egli non stimava abbastanza il progresso delle mie membra, dovuto alla mia forte costituzione, all'esercizio quasi continuo in cui vivevo, e finalmente alla buona cena con cui mi trattavo nelle osterie della via, sempre propense a favorire i cocchieri, colla speranza d'aver viaggiatori. Una sera, secondo il suo solito, dopo d'aver bevuto oltremodo, egli cominciò a maltrattare mia madre, pria con parole, e poi con schiaffi e pugni. Avevo quindici anni - e questo pugnale, acquistato nei miei viaggi, mi batteva la cintola, come se vi avessi un cilicio; i miei occhi s'intorbidirono, e non vedevo che sangue. Avevo la sinistra al colletto del malvivente inclinato sulla giacente mia madre, la punta del mio ferro già passava la clavicola ed io certo lo immergevo sino alla guardia come se fosse stato nel burro!
Un grido di mia madre mi trattenne. Essa aveva veduto luccicare l'acciaro nella mia mano. Allora mi contentai di rovesciare sul pavimento l'ubbriaco.
Sollevai mia madre, ed ambi piangemmo quasi tutta la notte insieme.
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