In mezzo a tal confusione di sentimenti, la risposta del Senato fu unanime e decisiva: ricusarono di accettare la dimissione di Augusto; lo supplicarono di non abbandonar la Repubblica ch'egli aveva salvata. Dopo una decente resistenza, l'accorto tiranno si sottomise agli ordini del Senato, ed acconsentì a ricevere il governo delle province, ed il comando generale degli eserciti romani sotto i ben conosciuti nomi di Proconsole e d'Imperatore(225). Ma li volle ricevere per soli dieci anni. Sperava, diss'egli, che anche avanti questo termine, le piaghe della discordia civile sarebbero perfettamente rimarginate, e che la Repubblica, ritornata nel suo primiero stato di sanità e di vigore, non avrebbe più bisogno del pericoloso intervento di un magistrato così straordinario. Questa commedia fu diverse volte ripetuta durante la vita d'Augusto, e se ne conservò la memoria fino agli ultimi secoli dell'Impero, solennizzando sempre i perpetui Monarchi di Roma con una pompa singolare ogni decimo anno del loro regno(226).
Il Generale degli eserciti romani, senza violare in alcun modo i principj della costituzione, poteva ricevere ed esercitare un'autorità quasi dispotica sopra i soldati, sopra i nemici, e sopra i sudditi della Repubblica. In quanto ai soldati, la gelosia della libertà avea, fin dai primi secoli di Roma, ceduto il luogo alle speranze di conquista, ed al sentimento della militar disciplina. Il Dittatore o il Console avea diritto di obbligare la gioventù romana a portar le armi, e di punire una disobbedienza ostinata o codarda con le pene più severe ed ignominiose, scancellando il trasgressore dalla lista dei cittadini, confiscandone i beni, e vendendolo siccome schiavo(227). Il servizio militare sospendeva i più sacri diritti della libertà, confermati dalle leggi Porcia e Sempronia.
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