Sapevo che a mio padre piaceva la caccia ed il pesce, e non tornavo a casa senza portargli un po' di preda che la zia ammanniva brontolando per cena, e non potendomi maltrattare in presenza di mio padre, sfogava su Pastore la collera che la rodeva. Ogni calcio che gli dava, mi faceva soffrire più che se lo avesse dato a me.
Mio padre, nei pochi istanti che stava a tavola, non apriva bocca. Tirava fuori di tasca un taccuino ed estraendo da quello cifre ed appunti, li riportava sopra un grande scartafaccio, faceva somme fra un boccone e l'altro e finita la cena accendeva la pipa e mi faceva cenno d'andare a letto.
Appena lo sentivo alzare la mattina mi levavo io pure, lo accompagnavo per un pezzo di strada seguito da Pastore, tenendo una mano sulla spalla del cavallo per andare di passo. Poi mi dava un colpetto sulla spalla, toccava col frustino il cavallo e lo metteva al trotto. Stavo fermo a guardarlo finché lo scorgevo sparire ed apparire tra i castagni, eppoi mi allontanavo insieme con Pastore, il quale vedendomi afflitto faceva lanci, mi leccava le mani come se volesse, con quelle dimostrazioni d'affetto, compensarmi della indifferenza di mio padre che tanto mi addolorava.
Se in quei momenti vedevo un uccello volare al nido e udivo il lieto pispiglìo col quale lo accoglievano i piccini, mi sentivo assalito da un bisogno immenso di carezze e d'affetto e, gittandomi per terra, abbracciavo Pastore, nascondevo il viso fra il fitto pelame dell'amico mio piangendo lungamente.
Una mattina scendendo di camera per accompagnare il babbo, trovai rigido e disteso dinanzi alla porta di casa Pastore colla bocca coperta di bava; lo palpai, era freddo.
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Pastore Pastore Pastore Pastore Pastore
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