Si celebrava una nuova vittoria del giovane imperatore, e non v'era uomo che non si affollasse per vederlo passare nello splendore del suo trionfo. Gohur aspettava ansioso e commosso; ma fortemente risoluto e pronto a tutto.
Quand'ecco un grande urlo suona in fondo alla via, e si propaga sempre maggiore con un tumulto come di mare in tempesta. - L'elefante! l'elefante! - grida la gente fuggendo; e il grido e il vedere inoltrarsi terribile e velocissimo un immenso elefante, è tutt'uno. La folla si apre, si accalca lungo le case; e la nera mole sempre s'appressa ergendo la proboscide con spaventosi barriti. Un bambino è ancora in mezzo: confuso, spaurito, non sa dove rifuggirsi, come salvarsi; in quella sua furia incomposta incespica, e cade. L'elefante è lì a due passi: un minuto ancora, e la zampa pesante schiaccierà quel corpicino. Urlano, pazzi di terrore, i presenti; nessuno si muove. Ma un uomo a un tratto si spicca, correndo a gran furia, da un lato; ghermisce il bambino; son salvi tutti e due!
La gente li circonda: e chi può dire qual fu la sorpresa di chi riconobbe in quel generoso l'imperatore stesso? Il quale per vedere da vicino che pensasse il popolo di lui, entrato nascostamente nella città, ora si godeva travestito le chiacchiere dei sudditi che l'attendevano in ben altro aspetto. Gohur si fece innanzi; piegò a terra il ginocchio, e parlò.
- Signore, egli disse, non sono ancora pochi istanti, io voleva ucciderti, perché tu mi hai ferito e imprigionato il mio re vero, e gli usurpi ora il trono come gli togli la libertà. Ma salvare la vita val molto più che toglierla.
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