Una sera che era lassù da molte ore gridando e lamentandosi un'aquila reale venne a posarsi su un merlo della torre. Il conte trattenne la voce per non spaventarla e involontariamente ammirava con compiacenza la forza degli artigli, la potenza del becco di quella dominatrice dell'aria.
Mentre la guardava, la vide sorridere tristamente:
- Son come te: temuta e non amata - disse l'aquila e volò via.
Il conte andò su tutte lo furie. Quell'aquila aveva il segreto del suo dolore, quell'aquila doveva morire. La mattina dopo salì sulla torre armato di frecce e d'arco e si mise in agguato. Dopo poco vide l'aquila che descriveva larghi circoli attorno alla torre, ma stava sempre fuori del tiro della sua arma. L'aquila gli passò alta sopra alla testa gridando:
- Conte, caro conte, deponi le armi e t'insegnerò il mezzo di farti amare.
Il conte digrignava i denti dalla collera e scoccava frecce all'impazzata.
L'aquila si avvicinava sempre più, ma nessuna freccia le penetrava nella carne, e il conte raddoppiava di furore nel lanciargliele.
L'aquila sogghignando andò a posarsi sul solito merlo.
- Conte, caro conte, deponi le armi e t'insegnerò il mezzo di farti amare.
Il conte si avventò sull'aquila col pugnale, ma la lama invece di penetrare nel collo dell'uccello, scivolò e andò a conficcarsi nella pietra. L'aquila si accoccolò sulla impugnatura d'oro e di lassù seguitava:
- Conte, caro conte, deponi la collera e t'insegnerò il mezzo di farti amare.
Il conte giallo ancora di rabbia si avvicinò all'uccello.
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