Timoteuccia e Timoteini non gli dava pace. Prese l'ombrello, e con gran stento, solo, afflitto, riprese a piedi la via di casa.
Vedeva folleggiare allegri i ragazzi dietro alle farfalle, e:
- Che sarà dei miei? - sospirava.
Gli prese l'acqua; un'acqua grossa come funi e il sor Timoteo aprì l'ombrello, l'unico suo rifugio, l'unica cosa che eragli rimasta in tutto quel naufragio. Ma anche quell'ombrello era scritto che dovesse subire avarìe.
Dette sui nervi a un toro rabbioso che pascolava in un prato. Traversò lo stecconato e colle corna lo infilò e si messe a correre con quel cappello di nuovo conio.
Il sor Timoteo stanco della vendetta degli uomini, della inclemenza degli elementi, e dei capricci degli animali, ritrovò forza e si messe a rincorrerlo.
Il toro sentendosi inseguito andava come il vento e il sor Timoteo non l'avrebbe raggiunto dicerto se il toro che con quel cappello davanti agli occhi non vedendoci non avesse dato di cozzo contro un albero. Indispettito abbandonò l'ombrello al suo legittimo padrone in uno stato da far pietà.
Il sor Timoteo lo raccolse premuroso e sotto l'egida di esso riprese la via, che dopo tante tribolazioni doveva ricondurlo a casa, dove giunse col batticore.
Là trovò tutti sottosopra. La sora Timotea era a letto che spasimava chiedendo al cielo e alla terra notizie del suo Timoteo; i Timoteini, abbandonati a sé stessi in campagna avevano mangiate tante more che eran più nel mondo di là che di qua. Timoteuccia divertendosi in riva all'acqua era stata morsa da un terribile granchio.
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