Il soffitto di legno era dipinto a stelle d'oro, e le pareti erano azzurre, esse pure seminate di stelle: sopra una v'era dipinta una bella madonna prostrata ai piedi della croce. Non v'era altro mobile fuor che dei seggioloni torno torno e un gran scrittoio di legno scuro intagliato che pareva una cattedra di chiesa antica; esso era ingombro di grossi registri e di vasi di cristallo pieni di fiori.
La fata s'era seduta in uno de' seggioloni antichi, e Annuccia, ritta davanti a lei, colle manine nelle sue, tremava paurosa e felice nello stesso tempo.
- Come ti chiami, piccina mia? - le chiese la fata sollevandole dolcemente il viso.
- Annuccia.
- Povera Annuccia! Tu hai dunque saputo che vi era in questo giardino...
- La buona fata.
- Già - replicò ella con un sorriso. - La fata de' bambini abbandonati, de' bambini che non hanno la mamma, de' bambini, che senza colpa loro hanno preso a camminare per una cattiva via... Tu sei dunque infelice, mia povera piccina? Oh, dimmi il tuo dolore. Ti è forse morta la tua mamma?...
Annuccia ebbe un movimento di terrore. - Oh, no, no, no! l'ho la mamma mia! Non sono infelice, io!... Soltanto mi pareva... ma non è vero! non è vero! - E singhiozzò svincolandosi e correndo all'uscio per fuggire.
La fata riuscì a calmarla e ricondurla presso di sé.
- Guardami, Annuccia - le disse. - Lasciami guardare in fondo ai tuoi occhi.
La bambina sollevò verso di lei i suoi occhioni neri.
- Oh, come sono fieri e risoluti piccina mia! Vi è molto, molto foco: ma perché così poca dolcezza?
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Annuccia Annuccia Annuccia
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