Io diceva all'amico burlando: — Immagina che ti sia commessa una fabbrica ad uso di quello che più ti torna: fanne il piano, e così vedi d'ingannare la strada. — Hai ragione (rispose), giusto ci pensavo anch'io. — Dopo questo, zitti per parecchie miglia. L'amico era piccato sulle scale dell'edifizio; e per quanto rimuginasse nel cervello, non gli tornava il conto degli scalini. Io, arrivato felicemente a tutto il Terz'Atto di una Tragedia, aveva prontissimo il Quinto: tutti i personaggi in palco all'ultima scena; bellissima e terribile la catastrofe; vedeva e udiva batter le mani da tutte le parti; ma l'Atto Quarto non c'era modo di ficcarcelo, e pensava a una ragione classica o romantica per saltarlo; la mia gloria pericolava; se non che la vista fra l'ombre del campanile concittadino ci levò d'imbarazzo, e l'idea della cena e d'un buon letto invase e occupò tutte le nostre potenze intellettuali, ed eclissò in uno sbadiglio quella del coturno e dell'archipendolo.
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Si seppe da quest'oste medesimo: Un vetturale essendosi fermato ad uno stallaggio sulla via, e visto il tempo un po' meno rotto, si risolvè di riprendere il cammino. Tirò fuori il barroccio, menò il cavallo, e, sul punto d'attaccarlo, eccoti la piena che, crescendo mezzo braccio ogni ondata, non lasciava luogo a fuggire. Prima gli fu portato via di mano il cavallo, poi tramutato e subito dopo travolto il barroccio nella corrente. Egli intanto si salvava a fatica sopra uno degli altogatti di sulla strada. Vedeva il fiume rovesciare ad uno ad uno gli alberi della fila, ed egli lassù aspettava la morte guardando al fondo del tronco, già già lambito dalla corrente.
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Epistolario
Volume Primo
di Giuseppe Giusti
Le Monnier Editore Firenze 1863
pagine 416 |
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Terz'Atto Tragedia Quinto Atto Quarto
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