Addio.
15.
A Giuseppe . . . . .
Pescia . . . . .
Mio caro Beppe.
Sono parecchi giorni che ho voglia di scriverti e non so da che parte rifarmi. Ma tu oramai sei il mio padre confessore, e purchè te li dica tutti, tant'è cominciare dai più grossi che dai più piccoli. Tra amici non vorrei nè discorsi nè lettere provate sulla lavagna; meglio un disordine che venga dal cuore, dell'ordine che non lo tocca. Ti dirò d'ogni cosa un po' come se fossi a chiacchiera teco e come abbiamo fatto mille volte. Sai che l'Io è come le mosche: più lo scacci, più ti ronza d'intorno, e per questo non ti maravigliare se io comincio dal mio signor me. Tiro a ingrassare, fratello, tiro a rifarmi di quel tanto che se n'è andato in acqua nei cinque mesi che ho passati a Firenze. La tasca va di pari passo col tessuto cellulare, e tra un mese e mezzo spero di tornarmene costà più pieno e più peso in tutto e per tutto. Per non perdere il tempo affatto (giacchè il pensare a star sano e tranquillo oramai si chiama perder tempo), scartabello qualche libro allegro, e soprattutto che si lasci intendere alle prime, e copio là là svogliato e a miccino i pochi versi che mi son venuti fatti fino a qui. Ora mi piacciono, ora mi dispiacciono; poi mi tornano a piacere, e poi a dispiacere: se siano buoni o cattivi vallo a pesca. Discorso facendo, e per conseguenza dicendo le cose più alla casalinga che non soglio fare colla penna, vedo quanto più vo in là, che il modo mio di pensare s'accorda con pochi figurati poi scrivendo, quando l'ingegno, per la bramosía di alzarsi più di quello che non lo portano l'ali, cerca le cantaridi nel calamaio.
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Epistolario
Volume Primo
di Giuseppe Giusti
Le Monnier Editore Firenze 1863
pagine 416 |
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Giuseppe Beppe Firenze
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