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      Caro Gianni.
      La tua lettera diretta a Firenze, la ricevo stamattina a Monsummano, dove sono da un mese ad assistere il mio povero zio Giovacchino, che è ammalato gravemente. Vedi bene che ora subito non posso avere quei fogli dall'Ufizio della Diligenza, e rimandarteli corretti; ma se puoi aspettare, e se credi che il pacco stia bene dov'è, quando tornerò a Firenze, sarai contentato in tutto e per tutto.
      È vero che quei pochi versi girano scorrettissimi, e che continuando a girare raccattano sempre più lo scolo delle penne di quei tanti ciuchi che li ricopiano. Non solamente il libello che riguarda Picciotto, ma molti altri versi su quel gusto, mi vengono regalati da non so quali codardi stizzosi, che non avendo faccia da mostrare apertamente, mi si rifugiano sotto la pelle, e di lì abbaiano ai calcagni di questo e di quello, a sfogo delle loro passioncelle pettegole. Spero però che tu e qualcun'altro, che oramai deve aver fatto l'occhio alla fisionomia di famiglia, distinguerà i legittimi dai bastardi.
      Avrei altre cose inedite, ma mi trattiene un po' quello che in frase si chiama limæ labor et mora, e in lingua più casalinga, il desiderio di mandarle fuori col viso pulito, e un po' l'infedeltà del torchio che ha pubblicate le altre. Le mie; pazienza, ma le stroppiature degli altri, mi dolgono assai assai. Mi sarò lambiccato il cervello per trovare un vocabolo che me ne risparmi altri dieci, e quando credo d'aver preso il Turco per i baffi, eccoti uno che non afferrandone il significato in tutta la sua pienezza, mi ce ne pianta un altro più mercantile, e chi ha avuto ha avuto.


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Epistolario
Volume Primo
di Giuseppe Giusti
Le Monnier Editore Firenze
1863 pagine 416

   





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