Nondimeno confesso che stava in pensiero, e quasi me ne mordeva le dita, quando questa sua lettera carissima č venuta a tempo a levarmi di pena, come la china alla terzana. L'ho letta e riletta, tirandoci sopra certi respironi che m'hanno fatto sentire il vero di quei versiMise il possente anelito
Della seconda vita,
cosa che non ottengono sempre nč tutti i commentatori, nč tutti i maestri di rettorica. Ma (l'ho scritto anche alla marchesa D'Azeglio giorni sono) se oramai non fossi fuori del tiro, tra tutti sento che mi farebbero girare la testa come un arcolaio, e cascare nel peccato di credermi un animalaccio raro, o almeno stravagante. Per caritā, assai ho anch'io le mie superbiole: se ci soffiano dentro, vo a risico o di gonfiare, o d'addormentarmi. Creda, caro signor Grossi, non so neppur io come mi sia imbarcato in questo pelago, nč dove anderō a cascare: e, glielo dico di cuore, mi sento molto, ma molto da meno del conto che mi vien fatto di me. Per questa ragione, quanto ero lesto una volta a dar di mano alla penna, altrettanto ora la prendo a malincuore, e me la sento tra le dita pesa come di piombo. Non ostante farō quello che posso, e seguiterō su questo tuono, fino a che Dio mi dā lume; ma a volte mi si sciolgono le ginocchia sotto, e mi pare d'essere arrivato al punto di dover cantare un requiem æternam a quel poco d'ingegno che m'č toccato. Giā, quelle cosarelle mi costano tanto, che beato me se valessero la metā; e poi l'andare a tafanare ora questo ora quell'altro vizio, č una gran pena per me, che non vorrei vedere altro che del bene, a costo d'essere condannato in perpetuo a scrivere dei sonetti per monaca.
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Epistolario
Volume Primo
di Giuseppe Giusti
Le Monnier Editore Firenze 1863
pagine 416 |
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D'Azeglio Grossi Dio
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