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      Dante, il Compagni, il Villani, il Machiavelli, e tutti i sommi, scrissero la lingua che parlavano e che udivano, distinguendosi unicamente dai loro concittadini per la levata dell'ingegno. Pensavano come pensano i pochi, scrivevan come parlavano i più. Dov'è mirabile veramente il Boccaccio? Dove la fantasia lo porta a saltare a piè pari sui suoi soliti artifizi, dove prende la penna, e lascia parlare il cuore. Mutati i tempi, sorti le spezzettature, e assegnati i posti distinti, anco i letterati fecero tavola da sè, e per la prima volta si vide la lingua parlata messa in un canto come vile e plebea, e solamente la lingua scritta ammessa al Casino della repubblica letterata. Che n'è avvenuto? La lingua dei libri è rimasta in statu-quo, e spesso l'abbiamo veduta ammuffire tra le mani di chi s'è piccato d'usarla esclusivamente, mentre quella dell'uso comune s'è spogliata via via del vecchiume, ed ha buttate delle messe nuove, come l'albero che depone la scorza e rinnova i rami e le foglie sempre sullo stesso tronco. Ora forse dirò uno sproposito, ma per me chi vuole possedere veramente la nostra lingua, bisogna che faccia fondamento dei suoi studi la lingua parlata; che poi la confronti con tanti d'occhi aperti colla scritta, e che in ultimo ponendosi a fare di suo, rinfreschi di continuo il campo di questa, coi ruscelli vivi e perenni che derivano dalla bocca del popolo. Di questo metodo, io me ne sono trovato arcicontento, e tra i miei appunti, pochi sono quelli che presi dai libri, nel tempo che ho dei fasci di roba raccapezzata per istrada.


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Epistolario
Volume Primo
di Giuseppe Giusti
Le Monnier Editore Firenze
1863 pagine 416

   





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