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      Molto più che conoscere a fondo una lingua non istà nel tenerla tutta sulla punta delle dita dal primo all'ultimo vocabolo, come non consiste nell'avere in bottega tutte le pietre e tutti i metalli conosciuti, l'arte del gioielliere. Sta nel non iscompigliarla dipanandone la matassa; sta nel saperla fondere, ossia nel conoscere la tavolozza, come presso a poco dice famosamente quel caro ingegno del Porta; sta nel non usarla a rovescio, mettendo in bocca al servitore i modi del padrone, o portando in cattedra la Commedia, e la Tragedia in cantina; sta finalmente nel trovare il modo d'adattarla al tempo che corre, senza sciuparne la fisonomia. Anco qua, sia detto a onore e gloria del vero, quelli che la spendono alla peggio, sono, pochi eccettuati, appunto quei tali che dovrebbero saperne più; perchè o tirano via alla mercantile, o la pigliano di sana pianta dai libri, senza mai ringiovanirla con quella parlata, e così di progressiva che è, la trattengono lì ferma come un lago morto. Del resto, o si sappia o non si sappia, a me è parsa sempre una bambinata di noi Toscani, quella di mettere a rumore il vicinato, gridare la croce addosso agli altri dello Stivale, piantarsi in trono a suscitare la tirannia della chiacchiera.... Noi a scrivere e a parlare correttamente, abbiamo lo stesso merito che ha un uomo diritto a non esser nato gobbo; e anzi per gli stroppiati vedo aperti asili di carità, mentre i ben disposti sono obbligati al doppio del lavoro e al servizio di chi è impedito.


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Epistolario
Volume Primo
di Giuseppe Giusti
Le Monnier Editore Firenze
1863 pagine 416

   





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