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      La smania di farmi un nome non mi rompe il sonno nè mi fa perdere l'appetito; l'amore è doventato necessariamente anche per me un giocare a dama: mosse calcolate, una pedina sopra un'altra, e poi chi prima mangia o rinchiude l'altro, ha vinto. Sento qui dalla parte sinistra qualche resticciolo de' sedici anni, ma non lo dico per non essere deriso o menato per il naso. Così ridotto a vivere sulla lavagna, è un miracolo se ogni tanto mi scappa un verso; sarei più disposto a tirare una somma; finirò per fare il computista. E tu che fai? Dimmi qualcosa di te, degli amici e di Napoli. Addio.
      148.
      Al Marchese Gino Capponi.
      Livorno, .. agosto 1844.
      Mio caro Marchese.
      L'ozio, i bagni e la strada ferrata rovesciano in Livorno un vero visibilio di gente. Il viavai è continuo, nuovo e anco divertente per chi si diletta di fare i soliti nastri su e giù per via Grande. Anch'io mi ci tuffo di quando in quando, non foss'altro per fare quello che fanno tutti, e per iscansare certe visite noiose che da un pezzo in qua hanno cominciato a piovermi addosso.
      Quei pochi versi lasciati andare, i miei incomodi, e le voci strane che ne son corse, m'hanno reso una specie di bestia da vedersi. Non c'è Arcade o di città o di campagna o di casa del diavolo, che non voglia dare una capata nella casa dove sto, che è una noia, una noia da farmi andare a male. Nei giorni passati da una delle solite decime muse che non hanno mai allungato il numero delle figliuole di Giove, mi fu diretto un certo ser Canonico che mi si piantò addosso come una mignatta, e voleva, se Cristo era buono, farmi asciugare non so quante diecine di sonetti colla coda che portava a latere notte e giorno.


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Epistolario
Volume Primo
di Giuseppe Giusti
Le Monnier Editore Firenze
1863 pagine 416

   





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