Quest'inerzia faticosissima che a parecchi aiuta la digestione, è il diavolo peggiore che mi tocchi a sopportare e anco a spesare per non far peggio. Se potessi riavere la facoltà di raspare, d'armeggiare, di tempestare a tavolino come una volta, pianterei allegramente una gamba sul ceppo, e direi tagliate. Il pensiero di me medesimo era l'ultimo che mi venisse in testa; ora è il primo, volere o non volere; e questo stare rientrato in me, mi raggrinza il cuore e il cervello, che è una vera miseria. Più mi trovo avviluppato dalla catena dell'Io, più mi sento nato per gli altri; e questo amaro conflitto mi tormenta, mi supera, mi rende ogni nervo. . . . .
(Non continua.)
156.
Al Dottor Leopoldo Orlandini.
Livorno, 30 agosto 1844.
Mio caro Orlandini.
Son pieno come un San Lazzaro. Il mio ventre pare, non una via lattea, perchè il colore delle pustole fa ai calci col paragone, ma piuttosto una via rosata. Non negherò che per sopportare il pizzicore e il diavolo che mettono addosso, non ci voglia la pazienza di Giobbe; anzi ricerco la Scrittura per rileggere quel bellissimo libro, ora che ho alle costole un commentatore da farmene sentire il vero più di qualunque Santo Padre. Tirerò via a intonacare e a dar di bianco colla solita pomata fino a tanto che mi darà l'animo; ma i fiori sbocciati sono ormai tanti e tanti, da superare del doppio quelli che tu stesso avresti voluto che nascessero. Ho dei momenti nei quali m'entra nell'ossa la smania di correre e di saltare come un barbero ricamato di perette, e solamente quando mi pongo a sedere, o quando m'alzo, o quando mi chino in terra a raccattare qualcosa, fo dei movimenti così torpidi, così rotti, che non farei altrettanto se m'avessero scritto sulla pancia: — Posa piano.
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Epistolario
Volume Primo
di Giuseppe Giusti
Le Monnier Editore Firenze 1863
pagine 416 |
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